Anna-Vera Sullam Calimani ha insegnato Lingua e Storia della lingua italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è occupata del lessico italiano e del rapporto tra la lingua inglese e quella italiana. Tra i suoi lavori ricordiamo: Il primo dei Mohicani. L’elemento americano nelle traduzioni dei romanzi di J.F.Cooper (Iepi, 1995) e la curatela di Italiano e inglese a confronto (Cesati, 2003).
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando cominciò a emergere la consapevolezza che una delle tragedie che si erano verificate in quel periodo era stato il massacro di quasi sei milioni di ebrei, si parlò prima di deportazione e di sterminio, e successivamente di genocidio. Nel mondo ebraico orientale e tra gli abitanti del nascente Stato d’Israele furono utilizzate parole come hurban e poi shoah. Oggi molti storici si riferiscono a quell’evento definendolo metaforicamente soluzione finale o Auschwitz; gli inglesi, gli americani e i mass-media lo chiamano olocausto.
Fra gli ebrei religiosi, alcuni, addirittura, non vogliono neppure nominarlo, ritenendolo inconcepibile, mentre altri hanno formulato definizioni diverse che fanno riferimento alla sua unicità e alle sue terrificanti proporzioni.
Che significato ha questo proliferare di nomi? Perché definire olocausto, ossia «sacrificio in cui la vittima viene interamente arsa», lo sterminio di un popolo? Quale importanza può avere il nome con cui definiamo quest’immane tragedia? E perché essa deve avere una denominazione che la identifichi tra tutte quelle avvenute nei secoli?
Per PAROLE IN VIAGGIO Anna-Vera Sullam Calimani cerca di rispondere a queste domande, spiegando come e perché sono nate le singole definizioni; come la ricerca di un nome abbia accompagnato l’approfondirsi della conoscenza storica dell’evento; come per tutto ciò vi siano motivazioni non solo linguistiche, ma anche psicologiche, politiche, storiche e religiose.
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