Jean Genet
Quattro ore a Chatila
Fra il 16 e il 18 settembre 1982, alla periferia di Beirut, duemila palestinesi e libanesi abitanti dei campi di Sabra e Chatila vengono massacrati da miliziani falangisti con la connivenza dell’esercito di Tel Aviv. Invitato dall’amica Leila Shahid, Jean Genet arriva a Beirut il 12 settembre e il 19, all’indomani della strage, riesce a entrare nel campo di Chatila. Quello che vede è contenuto nelle poche pagine di una testimonianza che è difficile classificare: «è un reportage? Una poesia in prosa? Un testo militante? Un’oscena visione morbosa? È la denuncia di una strage invisibile? È un canto funebre?». Tra i cadaveri neri divorati dal sole e dalle mosche, abbandonati all’ebbrezza empia di un furore omicida, Genet ritrova la scrittura, che da anni disertava. A Chatila, dove vede il dolore, la tortura, il sangue e la morte, torna scrittore, ma la lingua che emerge per raccontare la Palestina e i palestinesi, la loro rivoluzione e la loro tragedia non è più quella di una volta: è scarna, povera e scombinata. In una delle rare interviste concesse, rilasciata al giornalista radiofonico Rüdiger Wischenbart, e qui integralmente riportata, Genet tenta di descrivere il senso delle sue parole: «Nei libri, quando mi trovavo in prigione, ero signore della mia immaginazione. Signore dell’elemento su cui lavoravo. Perché si trattava unicamente della mia fantasticheria. Ma ora, non sono più signore di quello che ho visto, sono obbligato a dire: ho visto gente imbavagliata, legata, ho visto una signora con le dita mozzate! Sono costretto a sottomettermi al mondo reale». Il reale, per Genet, è in uno spazio ben preciso, uno spazio chiamato Palestina, uno spazio senza luogo, una terra senza più terra in cui ritrovare «la traccia principale della vita che gli stava più a cuore».