Sebbene non esista alcun racconto possibile dopo la Shoah, qualcosa impone di parlare incessantemente dei campi, in nome di coloro che non lo hanno potuto fare. Ma come testimoniare questa cesura storica? Come portare l'attenzione su quella realtà inimmaginabile? Come raccontare tutto, sapendo di non poterlo semplicemente comunicare? L'unica cosa certa è che le parole non possono che soffocarsi in gola, non possono suonare che come parole soffocate. A partire dalla drammatica perdita del padre, morto ad Auschwitz dopo essersi rifiutato di lavorare di sabato per poter pregare per tutti, le vittime come i carnefici, Sarah Kofman si cala nelle difficoltà della parola, intrecciando la dolorosa memoria autobiografica con le riflessioni di Maurice Blanchot e con la testimonianza del campo di concentramento fatta da Robert Antelme in Lo spazio umano.
Sarah Kofman (1934-1994) è stata una delle figure di spicco della filosofia francese del Novecento, interprete raffinata e sensibile in particolare di Nietzsche e Freud. In italiano sono stati pubblicati L'enigma donna: la sessualità femminile nei testi di Freud (Milano 1982) e Rue Ordener, Rue Labat (Palermo 2000).
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